Nato a Milano, si sposta a Tokyo nel 2008 per ragioni di cuore.
Ambassador di Hasselblad Japan, le sue immagini si distinguono per eleganza e attenzione alle forme.
Ha incrociato bella gente Lorenzo: dai Casino Royale a Chris Martin, dalle Femm (duo canterino giapponese) all’artista Shibuya-key Yukari Fresh, a Luca Barcellona, calligrafo e grafico.
Io l’ho incontrato durante uno dei suoi Tokyo-Milano A/R.
Ha una grande esperienza come fotografo e una particolare sensibilità per i ritratti.
Ha fotografato molte donne diverse e i suoi scatti sono una chiave preziosa per conoscere e interpretare l’anima più intima del Giappone.
Hai fotografato le Ama san, le leggendarie pescatrici di perle giapponesi, uno dei mestieri più assurdi al mondo che un celebre servizio di Fosco Maraini degli anni 50 aveva ammantato di esotico erotismo. Qual è stato invece il tuo approccio in questo reportage?
«È stata un'esperienza davvero unica.
Ho avuto modo di incontrarle in un villaggio della Prefettura di Mie, come parte di un servizio che raccontava una serie di esperienze per i clienti di un resort di lusso non molto distante.
È una pratica sempre più comune quella di organizzare giornate a tema per i clienti, e in questo caso, si trattava di passare qualche ora con le pescatrici, pranzare insieme mangiando il pescato del mattino e visitare le strutture dove lavorano.
Diciamo che rispetto al lavoro di Maraini, l'approccio è stato un po' più commerciale, anche se ho comune cercato di mischiare ambiente, dettagli, ritratto e cartoline, in modo da creare una storia ad ampio spettro.
Le Ama san di Maraini poi erano più giovani e pescavano praticamente nude, nel mio caso invece parliamo di donne con grande esperienza (tra l'altro sono rimaste in poche e le nuove generazioni non lo fanno più) e con uno stile più moderno (mute, pinne etc.).
Non so se risultino ancora esotiche, di sicuro hanno fascino, anche perché sono toste, lavorano in gruppo e si gestiscono il lavoro da sole.»
Fra i tuoi ritratti ce n’è uno bellissimo di Chiaki Kuriyama, famosa in Occidente per il ruolo di Gogo Yubari in Kill Bill. Com’è stato lavorare con lei?
«Molto divertente e facile.
Estremamente disponibile, tratto tipico dei personaggi famosi in Giappone, consapevoli dell’importanza di avere buoni rapporti con le persone con le quali lavorano assieme.
È loquace, naturalmente socievole e un po' otaku e non particolarmente alta.
Si crucciava di non riuscire a parlare abbastanza bene l’inglese e mi ha detto che quando Tarantino viene a Tokyo, si incontrano ancora.
Personalmente poi l’ho trovata di una bellezza disarmante, un po' atipica secondo i canoni estetici giapponesi: più “cool beauty” che “Kawaii”.
Secondo me a scuola doveva essere la bella un po' nascosta, quella che quando è sbocciata, ha lasciato tutti a bocca aperta.
E poi mi ha fatto i complimenti per gli occhi: ancora adesso, i miei 15 secondi più epici di questo capitolo in Giappone.»
Hai incontrato l’ultima geisha di Tokyo. È stato difficile entrare in sintonia con lei? La figura della geisha è ancora contemporanea o è destinata a ridursi a vuoto stereotipo?
«Vale il discorso fatto con la Kuriyama: una donna che passa praticamente buona parte della sua vita come se fosse su un palco, davanti a un obiettivo, da il meglio di se, con grande naturalezza.
È stato molto intenso: le ho detto solo dove mettersi, dopodiché lei ha iniziato a muoversi con grande lentezza e grazia, accennando pose.
In meno di cinque minuti avevo già lo scatto giusto.
È un lavoro molto duro quello della geisha: devi saper cantare, ballare, recitare e suonare almeno uno strumento.
È la quintessenza dell’intrattenimento.
Inoltre devono capire al volo chi hanno davanti, per poter intavolare una discussione e condurla, probabilmente l'aspetto più importante del suo lavoro.
I clienti sono davvero di tutti i tipi, quindi è fondamentale saper “leggere l’aria”, come si dice in giapponese.
Ogni persona richiede un trattamento ad hoc perché ognuno di noi si diverte in maniera diversa e reagisce in modo unico agli stimoli.
Non credo che si ridurrà a uno stereotipo, anche perché i giapponesi amano le loro tradizioni.
Probabilmente saranno sempre più considerate divertimento d’élite e mi piacerebbe vedere qualche elemento moderno, magari un accessorio o uno stile di kimono.»
Le Femm, duo pop giapponese, sono l’espressione di un certo tipo di cultura giapponese legata alle idol e al concetto di kawaii.
Cosa pensi di questo fenomeno?
«Non sono un grande fan del Kawaii, lo trovo noioso, come la Melon Soda: troppo dolce, colore artificiale, appiccicosa e che lascia il senso di sete dopo averne bevuto un bicchiere.
Indubbiamente svolge un ruolo fondamentale nella cultura giapponese, non solo quella pop, ed è ovunque.
Sin da piccole le bambine sono indirizzate a quel tipo di immagine, forse perché considerata innocente: la donna innocua ancora oggi attrae la maggior parte degli uomini giapponesi, che si illudono di poterla manipolare a piacimento.
Le femm hanno declinato in maniera più aggressiva e moderna il concetto di Kawaii, cosa che trovo interessante e sicuramente più attraente. Per me Cool Beauty over Kawaii tutta la vita.»
Per il progetto Recurrence con Hasselblad hai lavorato con la modella Yu Ishizuka.
Una bellezza molto diversa dai canoni occidentali.
Che differenza c’è fra la seduzione giapponese e quella del nostro paese?
«Yu è incredibile: ha un modo di muoversi che mi ricorda la geisha di cui sopra. Bellezza androgina, che ti conquista un poco per volta.
Sulla seduzione in Giappone c'è molta letteratura e magari anche qualche ricerca scientifica (non mi stupirebbe).
Sicuramente è più sottile, però allo stesso tempo gode del fatto che la cultura non ha un’impronta cattolica e quindi può essere più libera nelle sue manifestazioni.
Ad esempio i feticismi, in linea di massima, non sono connotati negativamente, la sessualità è vissuta in modo molto più naturale e mi sembra che abbia un peso minore nei rapporti.
Certo ci sono delle regole, tipo che la donna difficilmente farà la prima mossa (salvo rare eccezioni), a costo di perdere un occasione.
La parola, il tono di voce, il gesto fatto in un certo modo, sono considerati più efficaci di una scollatura ben in vista.
Farti sentire al centro del mondo, in maniera concreta e non solo a parole: ecco, in questo i giapponesi sono molto bravi, uomini e donne.»
La convivenza fra passato e futuro è un aspetto fondante della cultura giapponese. Questa dicotomia ha influenzato il tuo lavoro?
«Una prima influenza è stata il bisogno di creare ordine, di organizzare lo spazio nelle mie fotografie in modo quasi maniacale.
Ci sono momenti che cerco di spingere al massimo le simmetrie oppure di svuotare in modo minimalista i miei scatti.
Ultimamente invece sento il desiderio di essere più organico, naturale, intimo e questo mi sembra molto giapponese: sto cercando di uscire dalla mia zona di sicurezza e provare a fare cose nuove.
Del Giappone tradizionale, mi piace molto l’architettura, in particolare l’uso della luce naturale e dei materiali.
L’arte figurativa invece non mi stimola particolarmente, a parte le statuette Haniwa.»
Vivi in Giappone da più di dieci anni: qualcosa d’insolito a cui non sei ancora abituato?
«Un sacco di cose: le lavatrici che lavano solo a freddo, i guidatori che mettono la freccia all’ultimo secondo, gli uffici iper illuminati, le indicazioni stradali e nelle stazioni senza senso, i soffitti bassi, l’uso massiccio dei fax, il concetto di senpai.»
Abiti a Kawasaki, una città non propriamente turistica. È solo una base o c’è qualcosa da scoprire?
«Direi più una base.
Kawasaki è nota per essere una città industriale e dormitorio.
Ci sono un paio di attrazioni, tipo le raffinerie (fotografate dai cultori del genere), il fiume Tamagawa con i suoi campi da baseball, molto anime anni 70 con il sole che tramonta nella polvere a fine episodio e il Kanamara Matsuri, il festival del pene, particolarmente in voga negli ultimi anni. Per il resto è una sorta di Sesto San Giovanni al cubo.
Oh e abbiamo la squadra di calcio campione del Giappone: il Kawasaki Frontale (nome epico), nerazzurri doc.»
Risposta one shot: il posto più bello da fotografare a Tokyo?
«Forse Shinjuku, che ha davvero di tutto: grattacieli, bordelli, traffico, stazioni, locali super fighi e bettole.»
Invece dove ti troviamo solitamente a Tokyo?
«Il posto che amo fotografare di più è il palazzo dello sport che si trova a Yoyogi, fatto da Kenzo Tange per le olimpiadi del 1964: secondo me è uno dei tre edifici più belli del Giappone.
Daikanyama, Kita-Sando e la zona Kamiyamacho-Yoyogi-Tomigaya, sono invece le mie preferite per passare il tempo libero. Oh e il Bunkamura di Shibuya.»
GiapponeTVB
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